Un paio di giorni fa un amico mi ha domandato perché le persone si ammalano di Disturbo Alimentare. Ho risposto che non sarebbe bastata l’intera serata per rispondere alla sua domanda che, malgrado questo limite, ho accolto con estremo entusiasmo. Nonostante conservi tutt’ora questa idea dal sentore vagamente nichilista, ho deciso di scrivere questo articolo con l’intento di sciogliere l’annoso arcano, giacché l’unico modo per contenere l’incidenza e l’avaria di queste complesse malattie è parlarne il più possibile.
Perché allora, una persona si ammala di Disturbo Alimentare? Nell’insorgenza e nel mantenimento della malattia giocano un ruolo fondamentale specifici nuclei tratti della personalità, quali:
- Bassa autostima nucleare
- Perfezionismo Clinico
- Difficoltà nei rapporti interpersonali
- Intolleranza alle emozioni
- Molto frequentemente nelle persone che soffrono di Disturbo Alimentare si riscontra anche una scarsa assertività. L’assertività consiste nella capacità di esprimere in modo chiaro ed efficace le proprie emozioni e opinioni, senza tuttavia offendere né aggredire l’interlocutore.
È opportuno specificare che i suddetti tratti possono essere presenti anche in altre psicopatologie differenti dal Disturbo Alimentare, pertanto un soggetto può presentare un Perfezionismo Clinico e/o una Bassa Autostima, per esempio, anche in assenza del Disturbo Alimentare. Non è indispensabile la compresenza di tutti i tratti affinché si sviluppi un Disturbo Alimentare, né un’uniforme intensità di ciascuno. A seconda dell’individuo in causa cioè, un certo nucleo può risultare preminente e agire come fulcro primario dal quale si origina poi una cascata di eventi. Nella cascata si andranno ad inserire gradualmente anche gli altri nuclei eventualmente presenti, i quali andranno a sostenere e rinforzare la struttura del disturbo. Immaginiamo il Disturbo Alimentare come un processo dinamico in continuo divenire.
Prendiamo come esempio Giulia, che presenta come nucleo eminente l’intolleranza alle emozioni.
Chi presenta una intolleranza alle emozioni avrà una intensa difficoltà ad accettare e gestire i propri stati emotivi. La persona intollerante alle emozioni altro non è che uno sfacelo di sensibilità.
Essere sensibile è un po’ come passare dal guardare un film ad una TV degli anni novanta al guardare lo stesso film ad un cinematografo. È tutto tremendamente amplificato. Chi è sensibile coglie involontariamente i dettagli e quei dettagli gli arrivano al cuore come una coltellata. Chi è sensibile vive sempre all’ennesima potenza, questo significa che anche il sentimento della gioia, della rabbia o della tristezza venga sperimentato centomila milioni di miliardi più intensamente di quanto accade a chi è poco sensibile.
Se sono ipersensibile dunque, i fattori esterni che sono potenzialmente in grado di determinare ed influenzare una certa emozione vengono – più o meno inconsciamente – identificati come un pericolo in grado di alterare e minacciare il mio ordine e il mio equilibrio interiore. Nel corso della vita ci interfacciamo continuamente con le persone e con gli eventi, ed ogni interazione si intride inevitabilmente di un certo grado di rischio. Se sono intollerante alle emozioni – e dunque scarsamente capace di gestire questo rischio e le conseguenze che esso comporta – potrò: A) Decidere di lavorare psicologicamente su queste mie difficoltà, B) Trovare (inconsapevolmente) un palliativo per arginare il rischio e ridurre al minimo l’incertezza.
Il Disturbo Alimentare soddisfa appieno ogni requisito per simulare uno dei palliativi in questione.
Aristotele diceva che l’uomo è un animale sociale: tende per natura ad aggregarsi con altri individui e a costituirsi in una società. Gli esseri umani hanno bisogno di fare esperienze: della natura che li circonda, degli oggetti che la compongono e, soprattutto, dell’Altro.
Fare esperienze ed interagire con l’Altro significa accettare la possibilità che questo influenzi e condizioni la nostra esistenza.
L’Altro acquisisce dunque la facoltà di perturbare il mio ordine.
In quanto soggetto ipersensibile ed intollerante alle emozioni contemplare il disordine diviene col tempo un’esperienza insormontabile e inconcepibile.
Se è vero che non posso controllare il comportamento e le azioni degli altri, le quali vanno ad influenzare la mia esistenza perturbandone il placido e confortante equilibrio, è altrettanto vero che posso controllare altri aspetti della mia vita, dei frammenti dell’esistenza che siano svincolati dal comportamento e dalle azioni degli altri, che non dipendono da niente e da nessuno. Spostare gradualmente l’attenzione su questi fattori, come il cibo, il corpo, l’esercizio fisico, ma non solo, mi consente di plasmare un mondo tanto dolce, evanescente e dorato quanto sicuro e formalmente infallibile. Voglio dire, se lo scopo e la soddisfazione della mia esistenza diventano affamare e infarcire e poi svuotare il corpo, provocare, percepire e poi godere della fame – innegabile e rassicurante conferma della mia volontà – non potrò mai essere deluso da qualcosa o da qualcuno; dunque non sarò mai triste, non avrò mai paura, non mi arrabbierò e si, col tempo scorderò cosa significa essere realmente felice, dimenticherò il sapore del cioccolato e il calore degli amici, il candore della torta di compleanno, la dolcezza del pranzo di natale dalla nonna, il cuore nella gola quando mi innamoro di qualcuno, la bramosia e la veemenza dell’orgasmo e poi l’assenza e il desiderio di tutte queste cose quando, una volta che le avrò sperimentate, verranno a mancare.
La vita perde ogni sfumatura e si colora di una tanto glaciale quanto seducente scala di imperturbabili grigi in cui le uniche emozioni plausibili sono il bianco e il nero.
Il Disturbo Alimentare è una soluzione, ed è distruttivo, è devastante, ma è comunque una soluzione.
Purtroppo e per fortuna col tempo emergono da questo mare di lucida follia tutti gli svantaggi annessi. La fortezza crolla e il cuore inizia a fare male. In psicologia si chiama ‘egodistonia’: il sintomo alimentare viene avvertito non più come un affabile compagno, una soluzione, bensì come un problema. Ecco la domanda di cura.
Curare il Disturbo Alimentare non significa tendere la mano alla persona malata per riportarla in cima al baratro, perché questa cadrà di nuovo. Curare il Disturbo Alimentare significa guidarla lungo un percorso fatto di dolore e cambiamento che consentano a quella persona di lanciarsi nel vuoto per raggiungere l’altra estremità, quella nuova, del dirupo. Curare il Disturbo Alimentare significa riuscire a trasmettere al paziente la bellezza e la potenza della Vita, dei colori e dei suoni che egli ha dimenticato e del quale ha timore. Significa convincerla che saltare rischiando di farsi male è necessario, che il gioco vale la candela, che il senso della vita, infondo, è trovare il modo per tollerare, accogliere ed amare il cuore che batte dentro al corpo.
Dott.ssa Vinci Eleonora
Dietista Biologa Nutrizionista
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