Non voglio dire che aver sofferto di un Disturbo Alimentare rappresenti una controindicazione assoluta al suo trattamento in qualità di terapeuta (psicologo, dietista o medico). Quello che credo però, è che sia sconveniente e poco ragionevole fare leva su questo aspetto per promuovere e orientare il trattamento di cura. In primo luogo perché non è infrequente che il riferimento assiduo al “prima” e “ora” nelle persone segnate da un disturbo alimentare celi proprio la persistenza del disturbo. In secondo luogo perché, chi è formato nei Disturbi Alimentari lo sa bene, i soggetti affetti tendono a definire e scalfire gli altri, gli eventi, il mondo intero attraverso il corpo (sebbene questo incarni soltanto l’espressione più tangibile del loro frastuono interiore); di conseguenza saranno portati a relazionare (anche inconsciamente) il corpo, i comportamenti, ogni particolare del terapeuta con il Disturbo Alimentare, giacché questo assume in loro una funzione di identità, definizione e integrazione nel mondo. Il risultato è un guazzabuglio perverso e vizioso di pensieri ossessivi e disfunzionali, che verosimilmente alimenteranno la malattia.
Aver sofferto di un Disturbo Alimentare può rappresentare per un terapeuta una grande risorsa, promuovendo l’interesse e la passione (e dunque la ricerca, la formazione, la dedizione) per il tema, elargendo allo stesso un’empatia ed una sensibilità oltremisura, tutti presupposti cruciali ai fini della compliance e dell’efficacia di cura. Aver sofferto di un Disturbo Alimentare, per un terapeuta, può significare una ricchezza da custodire e governare con discrezione, cautela ed amore. Ciò non legittima un’ostentazione ingiustificata e lucrativa, perché a pagarne le conseguenze, a conti fatti, sono i pazienti stessi, le famiglie, la sanità, la società, il mondo intero.
Dott.ssa Vinci Eleonora
Dietista Biologa Nutrizionista
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